Il video documentario in tre parti, Operation Infektion.  Russian Disinformation: From Cold War to Kanye pubblicato sulla versione online del New York Times (https://www.nytimes.com/2018/11/12/opinion/russia-meddling-disinformation-fake-news-elections.html) in questi giorni, non è solo una mirabile pagina di giornalismo investigativo da cui tanti giornalisti, anche italiani, dovrebbero prendere esempio, ma un lavoro fondamentale per comprendere la centralità delle fake news nel panorama politico mondiale.

Nonostante il termine fake news sia da qualche anno sulla bocca di tutti, il grande pubblico e la maggioranza dei politici non ha in realtà alcuna dimestichezza con questo concetto. Conoscere l’origine, il ruolo e l’evoluzione delle fake news negli ultimi decenni è fondamentale per cercare di arginare il contagio virale di uno strumento costruito per distruggere le democrazie liberali.

Il reportage di Adam B. Ellick e Adam Westbrook, che si avvale delle testimonianze di ex agenti del KGB, di ex membri dell’Active Measures Working Group, gruppo di lavoro formato dall’amministrazione Reagan nel 1981 per contrastare la propaganda sovietica, e di esperti di disinformazione come Edward Lucas, già autore dieci anni fa dell’eccellente La Nuova Guerra Fredda, uscito anche in Italia e bollato da Sergio Romano, che ne curò la prefazione, come una provocazione russofobica, parte proprio da una prima definizione di fake news.

Le fake news sono un virus, non biologico ma politico e la possibilità che molti di noi ne siano già stati infettati è piuttosto elevata. Se non sappiamo più a chi credere, se siamo stufi della mole di notizie da cui siamo bombardati e se pensiamo che la cosa migliore sia fregarsene, beh allora la probabilità di essere stati già contagiati è davvero alta.

Lo scopo delle fake news, parola recente ma concetto molto vecchio, in epoca sovietica si chiamavano Aktivnie Meropriyatiya (Misure Attive) come conferma l’ex spia del KGB Ladislav Bittman, è quello di distruggere le democrazie occidentali dal loro interno.

In quest’ottica le interferenze russe nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 rappresentano soltanto il culmine di una campagna condotta da Mosca da più decadi, campagna che contrariamente alle previsioni, non è affatto cessata con la fine della Guerra Fredda.

Procediamo con ordine.

Nel luglio 1983 un giornale di Nuova Delhi, il Patriot Magazine, pubblica una notizia secondo cui il virus dell’HIV sarebbe stato creato dagli scienziati americani che lavorano per il Pentagono al fine di sterminare afro-americani e gay. Per rendere credibile quella che poi si sarebbe rivelata una clamorosa fake news, la testata menziona uno stabilimento realmente esistente in Maryland, quello di Fort Detrick, dove sarebbero avvenuti gli esperimenti.

Due anni più tardi, nel settembre 1985, la notizia appare sui quotidiani di diversi stati africani. Un anno dopo due biologi della DDR, Lilli e Jakob Segel, affermano sulle pagine di un giornale tedesco che loro sono in grado di provare che il virus è stato creato dagli americani.

Alla fine del 1986 la notizia viene rilanciata da quotidiani in Camerun, Finlandia, Pakistan, Bulgaria, Kenya, Bangladesh e anche dal britannico Daily Express. Il 30 marzo 1987 anche un’emittente televisiva americana dà la notizia. La fake news creata dal KGB, dopo quattro anni, è arrivata negli Stati Uniti creando un effetto destabilizzante sulla società americana.

L’Active Measures Working Group, voluto da Reagan al momento dell’insediamento alla Casa Bianca nel 1981 per combattere la dezinformatsiya russa, riuscirà a dimostrare, grazie alla collaborazione di ex agenti del KGB come la fake news sia stata prodotta dal Cremlino. Un dossier dettagliato sull’operazione Infektion verrà presentato anche a Mikhail Gorbaciov, che durante un incontro con Ronald Reagan si scuserà personalmente con il Presidente americano, non potendo negare il contenuto di quel dossier.

Grazie a uno staff di poche unità con un piccolo budget, specie se paragonato alle ingenti risorse impiegate dai sovietici, gli Stati Uniti furono in grado di smascherare l’operazione Infektion ma non di eliminare tutti gli effetti ‘tossici’ legati ad essa. Ancora oggi nei testi delle canzoni di alcuni rapper, in certe pellicole televisive, addirittura nei sermoni di alcuni predicatori religiosi, si accredita la tesi dell’HIV come virus creato dal Pentagono per liberarsi di neri e omosessuali. Lo stesso dicasi per analoghe fake news diffuse dal Cremlino in quegli anni, quali la tesi secondo cui JFK sia stato ucciso dalla CIA (Oliver Stone ha girato un film su questo falso storico), l’attentato a Giovanni Paolo II ordito dalla CIA e i rapimenti dei bambini in America Latina ordinati sempre dagli americani per alimentare il traffico d’organi!         

Il debunking della fake news sull’HIV costituisce un ottimo case study per comprendere le dinamiche relative alla creazione e alla diffusione di una fake news e anche i meccanismi di natura psicologica ad esse legati.

Grazie alle testimonianze di Stanislav Levchenko, Ladislav Bittman (conosciuto in America come Larry Martin) e Yuri Bezmenov, tre ex ufficiali del KGB, che in seguito collaborarono con le autorità statunitensi, il documentario del NYT ricostruisce con dovizia di particolari l’intera operazione svelando alcuni tratti distintivi dell’operare del KGB.

Solo il 15% delle attività del KGB era destinato allo spionaggio e all’intelligence, il rimanente 85% a un processo che Yuri Bezmenov definisce “ideological subversion” o “active measures”. Veniamo inoltre a sapere che in epoca sovietica c’erano ben 15.000 persone impiegate in tali operazioni. Ladislav Bittman, scomparso il mese scorso all’età di 87 anni, era considerato uno dei massimi esperti di questa pratica. È lui stesso nel corso dell’intervista a definire la dezinformatsiya la sua specialità. L’ex agente ricorda che ad ogni ufficiale del KGB era richiesto di dedicare almeno il 25% del proprio tempo alla fabbricazione di fake news.

Bittman nel corso dell’intervista fornisce una sua definizione di fake news. “Le fake news sono informazioni deliberatamente distorte e inserite segretamente nel processo di comunicazione al fine di ingannare e manipolare”.

Passando all’analisi tecnica delle operazioni Bittman rivela che il KGB, una volta prodotta una fake news, cercava di piazzarla in qualche giornale in lingua inglese di un Paese del Terzo Mondo come India (è il caso dell’operazione Infektion) o Thailandia dove era più facile l’opera di inganno o di corruzione dei giornalisti.

Lo step successivo era riproporre dopo un paio di anni la stessa notizia in un giornale russo citando come fonte quella indiana. Era questo il modo per distanziarsi da una bugia da loro stessi creata.

Nel 1986 – spiega sempre Bittman – il KGB voleva diffondere la notizia del virus dell’HIV prodotto in laboratorio dagli americani in Occidente e così si avvalse di due scienziati della DDR. Nell’arco di qualche mese la notizia divenne virale e, diffondendosi in tutto il mondo, arrivò anche in America.

Oggi, sottolinea l’ex spia sovietica, grazie ai media digitali è molto più facile rendere virale una fake news. Il lasso di tempo tra la produzione di una  fake news e la sua diffusione virale può essere ridotto a mesi o addirittura a settimane, a seconda dello scopo che ci si prefigge. Esattamente quello che è avvenuto con la fake news riguardante John Podesta, presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton alle presidenziali del 2016, protagonista del Pizzagate, il  finto scandalo orchestrato dalla Russia in cui si afferma che Comet Pizza, una pizzeria di Washington DC, nascondeva un giro di pedofilia gestito dai Clinton e dai vertici del Partito Democratico.

In quel caso, analizzato in dettaglio nel documentario (gli autori effettuano un vero e proprio debunking per dimostrare agli utenti che si tratta di una fake news costruita ad hoc per screditare Hillary Clinton e in definitiva per contribuire alla sua sconfitta elettorale) il lasso di tempo intercorso tra l’hackeraggio dell’account di posta di Podesta e la diffusione virale della fake news è di soli 6 mesi.

Torniamo ora indietro all’inizio degli Anni Novanta. Con il collasso dell’URSS nessuno, neppure gli americani, credeva che la Russia avrebbe continuato a usare questi metodi. La Guerra Fredda era finita e si apriva, a detta di molti, una nuova stagione di collaborazione tra Est e Ovest.

Dopo gli anni di relativa distensione della presidenza Eltsin, periodo in cui la Russia valuta addirittura l’ipotesi di entrare a fare parte della NATO, la situazione muta completamente con l’avvento sulla scena politica russa di Vladimir Putin, prima (1998 – 1999) come direttore dell’FSB, i servizi segreti federali eredi del KGB, poi come Primo Ministro (1999) e infine come Presidente (2000 – 2008; 2012 – oggi).

Ex ufficiale del KGB dal 1975 al 1991, in servizio a Dresda (DDR) dal 1985 al 1990 presso la STASI, Putin, salito al potere, inizia un’opera di ripristino del vecchio apparato di intelligence. Nella prima fase, che possiamo chiamare di consolidamento, si ricreano i media – nel 2005, per esempio, avviene il lancio di Russia Today (RT) emittente russa globale in lingua inglese –, nella seconda avviene il loro utilizzo in senso offensivo come strumento di information warfare. Uno dei primi esempi di utilizzo della dezinformatsiya si ha in concomitanza con l’invasione russa in Georgia nell’agosto del 2008 e durante il cyber attack del 2007 agli enti governativi dell’Estonia.

Nel 2013 il Cremlino crea l’Internet Research Agency. Le nuove tecnologie digitali – come sottolinea anche Bittman – schiudono infatti enormi possibilità alla propaganda. “Ai miei tempi – sottolinea l’ex agente del KGB – un’operazione poteva raggiungere al massimo 100.000 persone se la fake news compariva su un giornale con una buona circolazione, oggi con i media digitali e i social si può arrivare a milioni di persone”.   

L’obiettivo della Russia di Putin, ben consapevole di non poter competere a livello politico ed economico con un’Europa coesa, è dividere l’Ovest e favorire lo scontro tra i Paesi dell’Europa.

Il mezzo utilizzato è la disinformazione veicolata attraverso fake news.

Lo scopo è destabilizzare le democrazie, sovvertirle instillando nella popolazione un senso di confusione e di demoralizzazione usando argomenti divisivi, mettendo per esempio bianchi contro neri, giovani contro vecchi, ricchi contro poveri.

Il documentario del NYT passa in rassegna le 7 regole attraverso le quali viene lanciata una campagna disinformativa.

La prima regola consiste nell’individuare le fratture (Find the cracks) o i possibili punti di frizione all’interno di una democrazia. Le fratture, che possono riguardare gli argomenti più disparati (economia, religione, divisioni etniche etc), vengono enfatizzate al fine di produrre un senso di sfiducia nella gente.

La seconda è creare una bugia enorme (Create a Bold Lie), talmente grande che nessuno possa credere sia stata inventata e regola tre, ‘impacchettare’ questa fake news con notizie vere (A Kernel of Truth). La propaganda è davvero efficace quando la si mescola con un po’ di verità.

La quarta regola è quella di nascondere la mano (Conceal your hand) e sostenere che la notizia proviene da qualcun altro.

Il quinto passaggio è trovare un utile idiota (Find an useful idiot) che ripeta la fake news.

La sesta, fondamentale regola, è negare ogni cosa nel caso sia stata identificata la fonte di provenienza dell’operazione (Deny! Deny! Deny!) e infine, regola sette, giocare sul lungo periodo (Play the Long Game). Nel caso della fake news sull’HIV, la notizia arrivò nelle tv americane a distanza di quasi 5 anni.

Il documentario poi cita alcuni clamorosi esempi di fake news, dagli effetti destabilizzanti, apparse negli ultimi anni come quelle relative all’esplosione dell’impianto chimico a Centerville in Columbia attribuito all’ISIS, all’abbattimento dell’MH17 in Donbas attribuito ad aerei militari ucraini e alla petizione firmata da migliaia di abitanti dell’Alaska per staccarsi dagli Stati Uniti e tornare con la Russia.

Come difendersi dalle minacce portate alla nostre società democratiche da questo strumento?

La migliore difesa contro la disinformazione è sicuramente renderla pubblica, smascherarla, come avvenne ai tempi di Reagan con il dossier Infektion.

È altresì indubbio che le bugie hanno un vantaggio rispetto alla verità: ripetere una bugia accresce il rischio del contagio. Come diceva Joseph Goebbels, “ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.

Fondamentale per la battaglia contro la disinformazione è poter contare su una forte leadership politica. Reagan comprese meglio dei suoi predecessori il rischio dell’information warfare e si adoperò per sconfiggerla. L’America odierna sia sotto la presidenza Obama, sia con l’attuale amministrazione Trump ha fatto sinora ben poco per contrastare questa minaccia.

I Paesi più attivi nella lotta contro le fake news e in definitiva contro la guerra ibrida del Cremlino al mondo occidentale sono Estonia, Ucraina, Lettonia, Lituania e Repubblica Ceca.

Stopfake, nato in Ucraina dopo il Maidan con la mission di fare il debunking di fake news, ha siti in varie lingue e una sua tv in inglese. In Lettonia esistono programmi televisivi che mostrano le bugie del Cremlino in prima serata, in Repubblica Ceca le fake news vengono considerate alla stregua di atti terroristici, in Estonia è stata istituita una sorta di guardia nazionale di volontari digitali che si occupano di debunking.

Sorge spontanea una domanda. Cosa fa l’Italia per combattere questo problema?

Massimiliano Di Pasquale