Fonte : La Stampa

Furono due i disastri di Chernobyl. Uno è quello che avvenne il 26 aprile 1986 presso la centrale nucleare in Ucraina settentrionale, a un tiro di schioppo dalla Bielorussia, che causò svariate migliaia di tumori, decine di migliaia di sfollati e una nube radioattiva che si estese su vaste porzioni d’Europa, Balcani compresi, toccando persino porzioni della costa orientale del Nord America. L’altro fu quello che, giorno dopo giorno, fu realizzato con gli ordini impartiti da Mosca in conseguenza del «meltdown» della centrale intitolata al compagno Lenin: direttive disposte dai massimi vertici sovietici con tutta la trafila, a tratti surreale, della catena di comando di quella che allora era l’Urss, dalle riunioni d’emergenza del Politburo ai più oscuri e remoti funzionari della nomenklatura sovietica. Lo dimostrano centinaia di documenti segreti sovietici che i National Security Archives americani pubblicano per la prima volta integralmente a poco più di 33 anni dal più grave disastro nucleare mai verificatosi in una centrale nucleare, uno dei due incidenti classificati come «catastrofici» insieme a quello di Fukushima del marzo 2011.

In altre parole: a fronte di migliaia di persone che venivano ricoverate d’urgenza negli ospedali, le autorità sovietiche hanno pensato bene di cambiare al volo i limiti dell’esposizione a radiazioni nucleari. Ma sapevano bene quale fosse la realtà: il numero degli ammalati cresceva a livello esponenziale, come peraltro documentato dalla minuta numero 12 del 12 maggio, secondo cui in quel momento «10.198 persone sono state ricoverate in ospedale, di queste 345 mostrano sintomi di malattia da radiazione». Come emerge da altri documenti, la maggior parte fu però rimandata a casa.

Una sequenza di eventi oltre i limiti dell’incredibile: l’evacuazione fu seguita da una contro-evacuazione, anche dei soggetti più deboli ed esposti alle conseguenze letali delle radiazioni. «Classificato. Minuto numero 29, 23 giugno 1986. Rapporto sulla possibilità di far rientrare bambini e donne incinta nelle aree con livelli di radiazioni nella fascia tra 2 millirem all’ora fino a 5 millirem all’ora». Come commenta la giornalista ed ex deputata Alla Yaroshinskaya – fu lei, nel 1991, con l’Urss ormai in via di collasso, ad ottenere in modo avventuroso la maggior parte dei documenti segreti oggi pubblicati dai National Security Archives – «per avere un confronto, il governo statunitense stabilisce a meno di 6000 millirem all’anno la massima esposizione per un adulto che lavora con materiale radioattivo e raccomanda che feti umani non debbano essere esposti a più di 50 millirem al mese».

Ma c’è molto di più, in queste carte. Un altro protocollo segreto del Politburo arriva a varare una «ricetta» volta a rendere commestibile carne e latte contaminato, consigliando la lavorazione di carne contaminata dalla radiazione trasformandola in salami e derrate di cibi conservati.

«Top secret. Risoluzione del Politburo del Comitato centrale del Pcus, 8 maggio 1986. Protocollo registrato dal compagno V.S. Murakhovsky. Macellando bestiame e maiali, si è scoperto che la loro carne può essere approntata per essere consumata lavando gli stomaci (degli animali, ndr) con acqua e rimuovendo i linfonodi». E ancora: «Classificato. Aggiunta al rapporto n. 32. Distribuire carne contaminata dalle radiazioni è possibile attraverso tutto il Paese nell’uso ad una proporzione di 1:10 con carne normale, per trattare salsicce e cibi trattati». Né Kafka né i surrealisti sono mai arrivati a tanto.

A detta di Yaroshinskaya, si tratta di 47.500 tonnellate di cibo e di 2 milioni di tonnellate di latte prodotti nelle zone contaminate, che secondo una stima successiva hanno messo in pericolo nel solo 1989 complessivamente 75 milioni di persone. L’ex deputata in proposito cita, in un articolo pubblicato qualche anno fa sul Moscow Times, la nota del Procuratore generale sovietico V.I. Andreyev: «Queste disposizioni hanno creato le condizioni per una accresciuta mortalità, una maggiore incidenza di formazioni maligne, un numero maggiore di deformazioni. Per 1,5 milioni di persone – compresi 160 mila bambini sotto i 7 anni – le tiroidi sono state esposte a dosi radioattive di 30.000 millirem nell’87% degli adulti e nel 48% dei bambini».

Si tratta di note, protocolli, resoconti del Politburo nei giorni successivi all’incidente. Quel che ne emerge non è solo un colossale tentativo di insabbiare le reali conseguenze del disastro, ma soprattutto una immensa e delirante operazione di «aggiustamento della realtà» che ha avuto un drammatico impatto diretto sulla salute degli stessi cittadini sovietici. Come si vede chiaramente dal seguente documento, datato 8 maggio 1986: «Classificato. Minuta numero nove. 8 maggio, 1986. Il ministero della Salute dell’Unione Sovietica ha approvato nuovi livelli accettabili di radiazione ai quali il pubblico può essere esposto, e che sono 10 volte superiori ai livelli precedenti. In casi speciali, sono accettabili livelli superiori 50 volte a quelli precedenti».

Dopodiché c’è il tema di come oscurare quanto accaduto dopo Chernobyl, sia in Ucraina che a Mosca. L’ex deputata spiega, nel saggio pubblicato in esclusiva dal sito del National Security Archive statunitense, che nessuno di coloro che si sono resi responsabili della gestione della saluta pubblica sovietica dopo il disastro è mai finito alla sbarra: «Noi non abbiamo avuto i colpevoli degli oltraggi compiuti».  Ebbene, il riferimento è ai «massimi burocrati del Pcus» i quali, così si legge in un’altra delle carte, imposero «di rafforzare gli sforzi di propaganda volti a smontare le ingannevoli fabbricazioni dell’informazione borghese e delle agenzie d’intelligence riguardo alla centrale nucleare di Chernobyl».

Stando a quanto afferma un documento della sezione di Kiev del Kgb, gli agenti sovietici avevano anche il compito di «identificare e localizzare» gli studenti stranieri presenti nel Paese che si riteneva potessero diffondere le «dicerie» intorno al disastro, ipotizzando persino di «monitare i loro livelli di panico» dopo l’incidente. Non sorprende che gli americani, dal canto loro, non siano stati particolarmente teneri nel loro giudizio sull’efficienza sovietica sui progetti di insabbiamento: in un rapporto confidenziale del 7 maggio 1986 l’assistente speciale del presidente Reagan nonché direttore degli Affari sovietici del National Security Council, Jack Matlock, definisce quello sovietico «un totale flop comunicativo», aggiungendo però che «ci sono modi attraverso i quali possiamo capitalizzare» il caos seguito al disastro.

Che, in effetti, doveva essere totale, stando alla nota del consulente scientifico Vladimir Gubarev inviata al Comitato centrale del Pcus dopo il suo viaggio a Chernobyl, dalla quale emerge chiaramente il livello di incompetenza che portò alla «perdita non necessaria di vite umane», nonché la «completa paralisi» delle autorità locali, incapaci di fare alcunché senza precisi ordini da Mosca. Scrive Gubarev che «nel giro di un’ora la situazione con le radiazioni era già chiara», e nonostante ciò «non era presente nessun tipo di misura di evacuazione d’emergenza pianificata: le persone non sapevano cosa fare».  Completamente diversa la rappresentazione dei fatti nel primo rapporto ufficiale del disastro inviato al Politburo dal ministero dell’Energia sovietico, redatto il giorno stesso dell’incidente, secondo cui le fiamme erano state domate alle 3.30 ed il reattore tempestivamente raffreddato: «L’adozione di misure speciali, tra cui l’evacuazione della popolazione, non è necessaria».