Difficile dopo le immagini di Bucha parlare di diritto, ma l’Italia è ancora una democrazia, così per fermare la deriva russa sui nostri media è necessario che sia anche la legge a farlo. Credere che siano gli editori stessi a porre argine a questa deriva è pura utopia. I media italiani (come la maggior parte nel mondo) trattano le vicende ucraine nello stesso modo che verrebbe trattato qualsiasi argomento che fa audience, non c’è differenza tra il massacro di Bucha e una intervista ai Maneskin, tutto si basa sui dati di audience e tutto è lecito.

In questa situazione ci viene in aiuto come sempre la legge di un paese democratico, che già prevede quello che i supporter di Putin in Italia definiscono come censura, è la legge LEGGE 13 ottobre 1975, n. 654 che punisce la propaganda razzista, di istigazione e di incitamento di atti di discriminazione commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, mentre la legge n. 115 del 2016 ha attribuito rilevanza penale alle affermazioni negazioniste della Shoah, dei fatti di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti rispettivamente dagli artt. 6, 7 e 8 dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale.

In Italia, a differenza di quanto viene sostenuto dai conduttori dei talk show, sono già previste forme di buon senso che vietano la propaganda di idee e pensieri volti a negare crimini di guerra. Gli stessi personaggi che sostengono che le immagini di Bucha sono dei Fake, sono gli stessi che se potessero sosterrebbero che l’olocausto non è mai esistito e che Auschwitz era in realtà un set cinematografico allestito dagli USA. Non lo fanno semplicemente perché la legge attuale glielo vieta. 

Quali sono i limiti della libertà di manifestazione del pensiero?

L’unico limite espressamente previsto in costituzione alla libertà di manifestazione del pensiero tramite i diversi mezzi possibili è quello del buon costume, che la costituzione riferisce alla stampa, agli spettacoli e alle «altre manifestazioni» e che quindi riguarda, ad esempio, anche il mezzo radiotelevisivo.

L’art. 21 Cost., al 1° comma, così dispone:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”

Queste norme costituzionale cc.dd. aperte permettono alla Costituzione di respirare, in quanto permettono di far rientrare nella tutela costituzionale anche situazioni che, al momento in cui la Carta fu scritta (parliamo del 1947), non esistevano né erano immaginabili.

Il diritto di libertà di espressione, o di libera manifestazione del pensiero, è uno di quei diritti fondamentali, appunto pietra angolare della democrazia. Tuttavia, questo sembrerebbe anche essere il diritto più abusato, troppo spesso invocato come scriminante, ossia come un qualcosa che legittima alle persone a dire tutto ciò che passa loro per la testa, finendo spesso per ledere anche gli altri.

Con specifico riferimento all’art. 21 Cost., anche esso è sottoposto a dei limiti,

Quanto ai limiti espliciti, l’art. 21 Cost. stabilisce che “sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”: è previsto il buon costume quale limite esplicito alla libertà di manifestazione del pensiero. Da sottolineare come la clausola del buon costume sia una clausola generale, quindi caratterizzata da vaghezza, da dover riempire di volta in volta sulla scorta del contesto sociale che viene di volta in volta in riferimento, tenuto conto dell’evoluzione del costume sessuale e della moralità in un determinato momento storico.

Quanto ai limiti impliciti, tra questi vi rientrano la dignità, l’onore e la reputazione altrui. La libertà di manifestazione del pensiero, infatti, inevitabilmente viene a scontrarsi con questi valori propri della persona, e ricordiamo che il diritto all’onore e alla reputazione altrui rientrano tra le cc.dd. situazioni esistenziali, cioè trattasi di diritti non patrimoniali e legati fortemente alla persona umana, spesso indisponibili.

Importante limite previsto non dalla Costituzione ma dal codice penale è costituito dal reato di diffamazione (art. 595 c.p.), il quale si sostanzia qualora il soggetto offende la reputazione altrui comunicando con più persone (ne sono sufficienti anche soltanto due), e in assenza del soggetto la cui reputazione viene lesa. Inoltre, è prevista anche una circostanza aggravante, e cioè un aumento di pena, nel caso in cui la diffamazione avvenga con il mezzo della stampa.

Quando si accusa uno Stato intero (o lo si permette nelle proprie trasmissioni costruendo il programma invitando personaggi di dubbia moralità e concordando con loro che vengano dette certe affermazioni) di diffondere foto fakes di tale entità, esistono i presupposti per un’azione penale contro questi personaggi.

Infatti, diritto di cronaca e libera manifestazione del pensiero vanno sì di pari passo, ma spesso entrambi si vengono a scontrare con la reputazione delle persone.

Ma quali sono questi limiti? La Corte Costituzionale, così come la Cassazione, hanno più volte affrontato la questione, e ad oggi possiamo affermare che il diritto di cronaca è lecito, pur ledendo la reputazione altrui, quando:

  • – Il giornalista riporta fatti veri o almeno verosimili, e cioè di cui non si abbia la certezza potremmo dire empirica, ma le ricerche che ha compiuto – e quindi le fonti attinte sono talmente valide da poter pensare ad una verità della notizia.
  • – Che la notizia sia riportata in modo oggettivo, scevra da ogni opinione o supposizione personale;
  • – Che vi sia un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati.

In definitiva, prima arriverà l’incriminazione internazionale della Russia per crimini di guerra, prima si potrà porre fine allo scempio che va in onda 24 ore su 24 sui media italiani.