L’argomento “fakenews” è balzato agli onori della cronaca italiana solo pochi mesi fa in concomitanza con le ultime elezioni politiche.

Un colpevole ritardo che sottolinea quanto il problema sia stato sottovalutato sino a quel momento e di quanto sia evidente in Italia una certa subalternità alla ingombrante figura di Vladimir Putin, un maschio alfa contro cui nessuno sembra voglia misurarsi.

Dal 2014 infatti è risultato del tutto evidente che la Russia aveva sviluppato una rete internazionale per la diffusione della disinformazione.

L’Unione Europea aveva predisposto un team per monitorare la diffusione delle fakenews a sfondo politico perché la loro diffusione aveva il chiaro obiettivo di destabilizzare le democrazie occidentali. In Italia si è invece preferita una linea “morbida” nella quale si sosteneva che il problema della disinformazione russa esisteva, ma che sarebbe stato risolto “coinvolgendo” maggiormente il Cremlino nei processi europei. L’unica iniziativa intrapresa in Italia fu “basta bufale”, proposta della ex Presidente della Camera Laura Boldrini, un progetto certamente lodevole ma che involontariamente sviava l’attenzione dal vero problema della disinformazione.

Le bufale, infatti, sono principalmente un fenomeno economico, vengono create con il solo scopo di instillare curiosità nel lettore il quale è tentato a cliccare sulla “notizia” proposta; conosciuto anche come fenomeno del “clikbait” la principale funzione è di attirare il maggior numero possibile di lettori, per generare rendite pubblicitarie online al proprietario del sito.

Si comprende quindi facilmente che per intraprendere l’attività di “bufalaro” non sono richieste né una particolare struttura logistica né investimenti in termini economici, ma sono sufficienti una buona immaginazione e l’abilità di individuare argomenti che possano suscitare una grande curiosità nei fruitori della rete.

Le cosiddette fakenews sono invece una delle componenti della disinformazione, cioè di quell’insieme di tecniche manipolative che si prefiggono di modificare le percezioni delle masse: oggi infatti la disinformazione è parte di una precisa strategia militare, che si differenzia quindi dal passato, quando la disinformazione e la propaganda avevano principalmente un compito di controllo dell’opinione interna.

Il termine “disinformazione” appare nei vocabolari inglesi solo negli anni ottanta del secolo scorso. William Safire scrisse nel suo libro del 1993 Quoth de Maven che la disinformazione fu usata dal KGB per indicare «la manipolazione del sistema di intelligence di una nazione attraverso la somministrazione di dati credibili ma fuorvianti».

Possiamo dire che attualmente l’uso massiccio di disinformazione a scopi politici su internet è una prerogativa russa in quanto sono stati i primi a comprenderne le potenzialità creando e finanziando veri e propri outlet internazionali per la sua diffusione (Russia Today, Sputnik, etc.) ed una fitta rete su internet formata da pagine social, siti web ed un vero e proprio esercito di “combattenti digitali”.

Comprendere questa differenza è fondamentale perché ci permette di focalizzare quanto sta accadendo a partire dall’ultimo decennio nelle democrazie occidentali.

Gli alert erano presenti da tempo, ma sono stati ignorati o sottovalutati. Valery Gerasimov (Capo di Stato Maggiore russo) nel 2013, durante l’esposizione della nuova dottrina militare russa, spiega che è arrivato il momento in cui la disinformazione esca dalle Università ed entri nelle accademie militari, e che probabilmente non vedremo più le guerre per come sono state viste finora. La classica dichiarazione di guerra consegnata all’Ambasciatore, le truppe regolari etc., saranno sostituite dalle cosiddette guerre ibride, dove la disinformazione ha il compito di preparare il terreno nello stato target.Seguiranno poi i “turisti”, persone in abiti civili con il compito di fomentare la violenza di piazza e gli “omini verdi”, ovvero truppe di reparti speciali senza insegne (come successo durante l’occupazione della Crimea) sino ad arrivare a proporsi come forza di pace proprio laddove si è stati artefici del problema.

La disinformazione necessita di una struttura complessa e molto costosa (ma infinitamente meno costosa di una guerra tradizionale). Necessita altresì di una precisa regia, normalmente gestita da esperti di comunicazione che gravitano nell’ambiente militare che provvedono a profilare il loro target, creano una narrativa in grado di suscitare suggestioni che rispondano al bias di conferma di quella comunità, individuando le parole chiave sulle quali insistere. Terminata tale analisi, vengono create in laboratorio le fakenews, generalmente notizie che hanno un granello di verità e attorno al quale si costruisce una storia, e successivamente distribuite alla catena logistica formata da centinaia di pagine social, redazioni di giornali ove lavorano giornalisti compiacenti, e in tutto il mainstream raggiungibile.

La disinformazione funziona se è multicanale (cioè la stessa notizia viene pubblicata e condivisa in diversi ambiti) e ripetitiva. Necessita di un ulteriore fondamentale elemento, gli “endorsement” di personalità che godono della fiducia dei lettori. Ultimo fattore che la rende micidiale è che è “responsive” cioè arriva sempre per prima su una notizia e ne fornisce una versione propedeutica alla propria narrativa, non dovendo essere sottoposta, come accade nell’ambiente giornalistico, alla normale verifica di veridicità: la prima versione che il lettore legge è quella che si fissa nel suo immaginario, anche in caso di successiva smentita.

Esistono alcune società, forse la più famosa è la russa Internet Research Agency di San Pietroburgo, conosciuta anche come la fabbrica dei troll, ove si creano queste notizie e in cui centinaia di persone lavorano gestendo quotidianamente botnet e migliaia di account falsi.

L’occidente si trova di fronte ad una guerra ibrida e alla minaccia di chi ha interesse alla distruzione del progetto europeo, una guerra che nella disinformazione ha una delle sue armi principali e che in questi anni ha mirato in particolare alla distruzione del valore della conoscenza.

Le democrazie occidentali devono comprendere che ad una guerra ibrida si risponde con una struttura adeguata. Sarebbe un grave errore copiare il modello e rispondere a disinformazione con disinformazione, ma è fondamentale sviluppare tecniche in grado di neutralizzare gli attacchi avversari; dotarsi di contraerea non significa voler bombardare un nemico ma difendersi se quando mette in atto le incursioni.

Vi sono degli studi internazionali, che hanno identificato la popolazione italiana come la più esposta alla disinformazione in Europa. Le cause possono essere molteplici, dalla bassa scolarizzazione alla cronica “ignoranza digitale”. Analizzando le varie pagine dei social network è evidente come centinaia di migliaia di persone condividano notizie false che rispondono al loro bias di conferma.

Un esempio di disinformazione russa in Italia è la questione delle “sanzioni”, certamente un tasto dolente per il governo russo e sul quale investe molto. Non è un caso che la revoca delle sanzioni sia stata addirittura indicata come obiettivo dell’attuale compagine gialloverde al governo in Italia. I dati forniti dal governo italiano relativi ai danni subiti dalle aziende italiane a causa delle “inique sanzioni alla Russia” sono stati più volte confutati dai numeri reali. Nonostante ciò, è ancora radicata l’idea che le nostre aziende stiano soffrendo a causa delle contro sanzioni imposte dalla Russia all’Europa.

Tale vicenda dimostra come la disinformazione possa entrare nel profondo dell’immaginario collettivo. Quasi nessuno infatti è a conoscenza che le difficoltà incontrate da qualche impresa italiana nell’export dei suoi prodotti agricoli verso la Russia non è stata imposta dall’Europa ma dalla Russia stessa, che ha varato le contro sanzioni per i prodotti provenienti dall’Europa sperando così anche di alimentare la suggestione di “sindrome di accerchiamento” di cui il capo del Cremlino necessita per mantenere solido il suo potere.

É sicuramente necessario avviare un grande lavoro, specie nelle scuole, che fornisca gli strumenti culturali ai cittadini per districarsi nella babele digitale, un lavoro che certamente richiederà molti anni. Purtroppo ora non abbiamo tutto questo tempo.

Di conseguenza – a meno di non perdere questa guerra ibrida – chi ha la responsabilità di difendere la democrazia in questo paese dovrà dotarsi di un’organizzazione di cyber contrasto anche perché è oramai assodato che il solo debunking (la confutazione delle notizie false) è un’arma spuntata e a volta addirittura controproducente.

Fonte : Mauro Voerzio su MondoDem